Il dispiacere per un gesto d’affetto non corrisposto e svilito e la ferita di un tradimento immeritato, la disillusione per un bene che sembrava genuino e l’amarezza del sentirsi dimenticati ed esclusi con perfidia e crudeltà. La dimenticanza di un atto di generosità o di un vantaggio ricevuto, il sottile piacere di una vendetta inferta con premeditazione, come si pareggia un conto, la rabbia che genera sospetto, vendetta e un groviglio di altre meschinità e miserie da cui si può attingere a piene mani.
C’è un pozzo di violenza dentro l’ingratitudine, parola spietata, essa stessa dal suono sgradevole con quel suo grattare in gola e insieme evocare tristezze, rabbie e risentimenti, favori e livori, ferite mai sanate del tutto. Tanto più ingrata perché non sa consolarci né condurci ad alcuna bellezza. Eppure, nonostante si cerchi di guardarla con maggiore rammarico quando ne siamo vittime, nessuno ne è immune. Colpa del nostro rapporto fragile con la memoria. O meglio della memoria corta della riconoscenza. «Cosa sta succedendo in questo clima di cultura dell’ingratitudine e di degenerazione del rapporto di fiducia tra la comunità dei cittadini e le istituzioni è evidente. Le recriminazioni e le polemiche devastanti nei confronti di chi offre servizi hanno raggiunto un tale eccesso da creare malumori, sfiducia collettiva e aggressività sociale. Sempre più la gratitudine ci manca come comportamento collettivo, fonte di solidarietà e fraternità; sempre più dilaga l’ingratitudine in quanto frutto di una sistematica diseducazione civile a nutrire passioni per il bene comune, l’equità, la giustizia sociale».
Fonte www.avvenire.it