fonte Paola Del Vecchio – Il Mattino «Domenico Cirillo rappresentava per me soprattutto la trasformazione. A differenza di molti dei partecipanti ai moti del 1799, aveva molto da perdere. Da un prestigioso medico e botanico, che frequentava la famiglia reale napoletana, sarebbe stato più logico un atteggiamento molto più neutrale nei confronti della Rivoluzione. Tramite il suo esempio volevo dare una risposta alla domanda di fondo del romanzo: perché un uomo cambia?».
José Vicente Quirante Rives, classe 1971, già direttore dell’Istituto Cervantes di Napoli e autore di Napoli spagnola e Vesuvi parla del suo esordio nella fiction con Sombra y revolución. Variaciones sobre el naturalista Cirillo, appena uscito in Spagna da Confluencias (pagg. 290). Un romanzo costruito come le «Variazioni Goldberg»: qui le variazioni sono le testimonianze di trenta personaggi storici, dalla madre Caterina Capasso a Lady Hamilton, che restituiscono la poliedrica traiettoria del patriota allievo di Linneo e martire della Repubblica Napoletana. A fare da contrappunto, le peripezie di un investigatore che lascia tutto per mettersi sulle sue tracce per capire meglio chi sia davvero stato.
«Soprattutto, mi interessava l’uomo Cirillo, dimenticato fino all’Unità d’Italia e, per eccesso opposto, celebrato come mito rivoluzionario nel bicentenario del 1999», racconta Quirante, da ieri a Napoli: «È divenuto il patriota perfetto, lo scienziato buono, l’angelo dei poveri. Ma ho avuto l’impressione che fosse un modo ingegnoso di nascondere la persona, per la quale non vale il bianco o il nero, ma le sfumature. Cirillo ha rappresentato quell’apertura di Napoli che è finita dopo il 1799. Mi attraeva per lo spirito europeo, i rapporti con personalità del continente, divenuti ardui dopo la sua morte, con la restaurazione borbonica».
Perché, Quirante, la citazione di Goethe, «Nella vita tutto è metamorfosi» in calce al libro?
«Da due anni e mezzo la mia vita è cambiata molto. Ho smesso di fare il gestore culturale e vivo un momento di trasformazione, personale e professionale. Con oltre 40 anni, mi sono trovato a un crocevia e ho provato un senso di smarrimento. La strada che avevo sempre voluto esplorare era quella della narrativa e approfondire il mio rapporto con Napoli, con Cirillo».
E la dedica a Giuseppe Montesano?
«Per debito di riconoscenza. Ritengo sia un grande intellettuale europeo e, sebbene a sua insaputa, questo romanzo è frutto dei dialoghi avuti negli anni con lui».
Quale è il suo ritratto di Cirillo?
«Volevo raccontare l’uomo che dubita, contraddittorio, come tutti. Il contrasto fra la dedizione alla famiglia e una vocazione europea; la tensione fra libertà individuale e i legami con la madre e la sorella; il rifiuto iniziale a partecipare alla rivoluzione, quando è nominato membro del governo provvisorio, incarico che accetta solo in un secondo momento».
L’investigatore è una sorta di medium fra passato e presente di Napoli?
«Lui è il tramite per cambiare tono rispetto alle 30 variazioni che compongono la parte storica, settecentesca, in cui ho concentrato le mie ricerche. Sono stato a lungo a Londra e a Parigi, e ho trovato qualche novità importante. Mi interessava come dissonanza: un investigatore del presente che realmente non sa cosa fare della propria vita. Per darle un significato che lui fa fatica a trovare, assume Cirillo come uno strumento di riscatto. Il passato può essere una fonte d’ispirazione per uscire dalla palude in cui si trova. Settecento versus presente, certezza versus incertezza, è la dialettica a volte scomoda – che propongo».
I romanzi servono a riempire i buchi neri della storia?
«Sì. E Cirillo è un esempio perfetto, perché casa sua fu saccheggiata e tutto il carteggio con Linneo e altre personalità, anche quello dello zio con Newton, andò distrutto, per cui le lacune sono enormi. Come riempirle se non attraverso la fiction, a partire dai dati noti? Alla fine vorrei che il lettore possa avere di Cirillo un’idea non più idealizzata, come quella emersa dal bicentenario».
Diceva che nella sua ricerca ha scovato novità?
«Senza essere specialista, dò risposta a una questione che incuriosisce gli storici napoletani da più di un secolo: la lettera di grazia scritta da Cirillo a Lady Hamilton, scoperta da Croce, che ne parlò per primo, ma avendone visto solo la trascrizione. È stato il tema della mia ultima conversazione con Giuseppe Galasso: gli confidai di aver scoperto al Marittime National Museum di Londra l’originale e volevo sottoporla al suo giudizio. Ho confrontato la scrittura con quella di altre lettere autografe che si trovano alla British Library e credo sia autentica. Sono convinto che Cirillo l’abbia scritta in preda alla disperazione, per salvare la pelle. Cosa che non lo rende meno eroico, semmai più umano».
Le voci dei trenta personaggi sembrano un coro da tragedia greca: non c’è scampo alla tragedia napoletana?
«C’è una certa ineluttabilità perché le storie finiscono male e anche gli entusiasmi terminano. Il ’99 a Napoli nasconde una tragedia, un taglio profondo: il treno dell’Europa e della storia – che se ne va. E sicuramente segna quanto verrà dopo. È la fine delle illusioni di un uomo e di un’intera città. Il 1799 è stato importante ma non essenziale. Per il nuovo equilibrio europeo, Napoli è diventata molto più periferica, quello è stato forse l’ultimo momento storico in cui il Mediterraneo ha avuto una certa importanza politica. Poi Napoli si è ritrovata al margine delle grandi correnti della storia. Quando una personalità come Gerardo Marotta fondò l’Istituto per gli Studi Filosofici – un momento straordinario per il recupero di Cirillo, Pagano o la Pimentel – fece un’operazione profondamente antistorica. Il fatto che ci andassero filosofi come Gadamer o premi Nobel di fisica era dovuto a lui, Napoli era fuori dai circuiti scientifici che contavano. Il ’99 è stato scritto dai vinti, ma seppure avesse avuto successo, la corrente della storia non sarebbe cambiata».
Per lunghi decenni si è preferito dimenticare Cirillo, una presenza scomoda anche per l’intellighenzia napoletana?
«Il personaggio che lo illustra meglio è forse Domenico Cotugno, non solo suo collega, ma con un percorso opposto al suo. È uno scienziato puro, che ignora il suo legato politico. Dopo il ’99 si apre un periodo di scosse continue, perché a Napoli tornano i Borbone, ma pochi anni dopo ci sono di nuovo i francesi, poi Giuseppe Bonaparte, Gioacchino Murat, e infine ancora i Borbone. Per cui non era facile gestire una figura come quella di Cirillo. Una delle voci è Michele Tenore, il primo direttore dell’Orto Botanico. E c’è una costola scientifica del mio romanzo, che vedrà la luce fra poco in una pubblicazione, perché ho trovato una chicca da raccontare in modo rigoroso: l’unico esemplare spagnolo di Ciberus Papirus, il libro che Cirillo edita con il grande Bodoni di Pavia, è nella biblioteca del Palazzo Reale in Plaza d’Oriente. Quella pubblicazione doveva consolidare la sua fama in Europa ma servì invece ad alimentare il forno dove i ribelli cuocevano il pane in casa sua. L’intera tiratura, tranne pochi esemplari, è andata distrutta nel ’99. Una copia è a Madrid perché sulla prima pagina c’è una dedica a Giuseppe Bonaparte di Tenore che, quando tornarono i francesi a Napoli, gliene fece omaggio. È lo specchio degli alti e bassi della figura di Cirillo. È un tesoro per gli studiosi napoletani, perché quel volume con dedica, racchiude tutta una storia».