da Repubblica del 26 Gennaio 1996 di Salvatore Tropea – GRUMO NEVANO – Sulla piccola piazza, di fronte al municipio, Domenico Cirillo, medico, botanico, ministro della Sanità nella breve stagione della repubblica partenopea del ‘ 99, giustiziato dopo aver rifiutato la grazia del Borbone, guarda pensieroso dall’alto del piedistallo sul quale lo ha innalzato la riconoscenza dei suoi concittadini. Intorno a lui, negli angusti tre chilometri quadrati del comune di Grumo Nevano, si affollano ventimila abitanti e oltre quattrocento aziende e aziendine, molte della quali a conduzione familiare.
Non esiste un censimento, non esistono dati certi: reddito pro capite, livello occupazionale, consumi, scolarizzazione, tutto è approssimativo. A mezza strada tra Napoli e Caserta, all’incrocio d’un reticolo di autostrade, non tutte necessarie e non tutte regolari, Grumo Nevano è un comune dell’hinterland napoletano, un paese, come tanti da queste parti, come Afragola, Frattamaggiore, Casoria, Acerra. Un tempo, quando intorno la campagna verdeggiava di agrumeti punteggiati di ville, doveva essere anche un posto gradevole. Oggi è uno scempio edilizio, una delle tante escrescenze che dilatano a dismisura, imbruttendola, la periferia di Napoli. Sull’etimo di Grumo – anche questo incerto – esistono due scuole di pensiero: una lo fa derivare dagli agrumeti, un’ altra preferisce la versione più suggestiva che vuole il poeta lirico Gneo Nevio tra i progenitori. Sicuramente è un ‘grumo’ industriale senza regole o con poche regole. Ma è un fenomeno. E allora andiamo a vederlo per quel che si può vedere. Cioè poco alla luce del sole. Luca Meldolesi, docente di politica economica all’università di Napoli, con l’ aiuto di un gruppo di laureandi, gli ha dedicato uno studio dal quale risulta una forte vocazione di questa zona al ‘distretto’ industriale. Ma anche i ricercatori debbono arrendersi all’ evidenza e riconoscere di aver toccato soltanto la punta d’ un iceberg. La parte sommersa è ancora enorme, è persino difficile immaginarla. Ci addentriamo nelle vie di questa cittadina, alcune inutilmente spaziose, altre anguste, tutte sinistramente disposte in un disordine edilizio confermato dagli amministratori che riconoscono l’ assenza da tempo d’ un piano regolatore degno di questo nome. Senza una guida del posto sarebbe difficile persino orientarsi, vedere oltre le mura di cortili e attraverso le grate che illuminano cantine-laboratorio. Apparentemente tutto sembra normale, qualche villetta pretenziosa, molte abitazioni anonime, mai ostentazione di benessere. “Ci sono anche piscine e campi da tennis” ci dicono “ma non si vedono. Qui si vede poco. Il resto si deve immaginare o scoprire, ma con qualche difficoltà”. Eppure dietro questa facciata di cemento e mattoni c’ è un’ economia sommersa che ricorda molto da vicino il Triveneto degli anni ruggenti. Fino al 1960 Grumo era una cittadina di circa diecimila abitanti che viveva di agricoltura (gli agrumi, la canapa, poi scomparsa con l’ arrivo delle fibre artificiali) e di artigianato. Poi l’ esplosione dell’ industria e del cemento. Uno studio condotto da Luigi Bassolino, cugino del sindaco di Napoli, ha stabilito che il 94 per cento del territorio di Grumo è costruito. Ed è in questi meandri di cemento che si è materializzato il fenomeno impressionante di una crescita che molti definiscono il ‘ miracolo nascosto’ . Chi sono i protagonisti? Inutile cercarli, sono come i cinesi di Prato: ci sono ma non si vedono. Sono un popolo sotterraneo. Si può fare un conto, sapendo comunque di sbagliare per difetto. Se si va alla Abla Fashion, Vincenzo Attolini non ha difficoltà a spiegare che l’ azienda di cui è amministratore delegato è ciò che resta di un’ industria che una volta faceva capo a Nicola Blasi, ha avuto fino a trecento dipendenti e un buon mercato poi svanito con la guerra del Golfo, è stata “gepizzata” e infine è passata qualche mese fa a una società per azioni con 67 dipendenti, ottima professionalità, buon mercato e un fatturato di cinque miliardi e mezzo. Forse è eccessivo dire che le aziende come queste si contano sulle dita di una mano; ma è certo che non sono molte. Ciò vale per l’ abbigliamento e ancor più per il settore calzaturiero che conta il 75 per cento dell’ attività industriale di Grumo Nevano. In molte strade di questo paese, soprattutto in quelle più piccole, ristagna l’ odore pungente dei collanti e del cuoio. Come l’ odore del maiale nella Padania degli insaccati. Ma a un MacGregory, che prospera alla luce del sole con i suoi 40 dipendenti e 5 miliardi di fatturato a Sant’ Arpino, appena alle porte di Grumo, si contrappongono migliaia di aziendine, a volte tre-quattro dipendenti e tutti appartenenti allo stesso gruppo familiare. Lavorano come le formiche, sfornano scarpe che vengono poi vendute, come i vestiti, con le etichette di famose griffes. Gli abiti di Grumo si trovano nelle migliori vetrine di via Mille a Napoli con prezzi che si aggirano intorno al milione e mezzo al capo. Questo mondo di forzati della tomaia fa capo a grandi gruppi commerciali anche se ciò avviene spesso tramite intermediari. Molte aziendine lavorano per l’ estero, e in particolare per i paesi dell’ Est. Grumo è gemellata con la cittadina polacca di Zagan che si spera sia più vivibile della sua sorella partenopea. Andiamo in Comune per tentare un identikit del capofamiglia-tipo di Grumo. Ma i risultati sono poco incoraggianti. Si scopre solo che il reddito è basso e la disoccupazione alta. Sull’ argomento le notizie sono però frammentarie, reticenti. Tutti sanno che le cose stanno diversamente poichè se fosse vero quel che dicono le statistiche ufficiali Grumo sarebbe un paese di disperati. E non è così. In realtà il lavoro nero è una cassa di compensazione enorme. Anche se ad arricchirsi sono soltanto alcuni. In un paese nel quale si calcola lavorino tre quarti degli abitanti, si contano meno di 5 mila dichiarazioni dei redditi su 20 mila persone. Una stima molto vicina al vero fa osservare che in media ci sono più di due auto per ogni gruppo familiare. In qualche caso anche di grossa cilindrata. Naturalmente, col benessere, ha fatto la sua comparsa la droga: negli ultimi anni si è passati dall’eroina, alla coca, all’ecstasy. Alcuni parlano del fenomeno di Grumo come di un passaggio obbligato verso l’ industrializzazione del Mezzogiorno. E’ possibile che sia così, ma il prezzo sembra alto. Nel corso degli ultimi trent’anni i padroni del feudo sono stati i Gava, gli Scotti, i Pomicino, i Ciampaglia e altri personaggi della Prima Repubblica. In questo scenario è naturale che la camorra abbia individuato questo comune come terreno di conquista. Vi si è insediata, ricatta e spadroneggia. A metà gennaio i carabinieri hanno arrestato 88 capi-bastone che da anni tiranneggiavano piccole aziende, commercianti, singole persone, amministratori. Un pentito ha spiegato come veniva pagato il ‘pizzo’ e ha detto che il prezzo variava da 3 a 15 milioni e oltre. Ma allora è un miracolo questo di Grumo o una condanna? Il sindaco Angelo Di Lorenzo, un commercialista a capo di una giunta mista dal ‘ 92, parla di ‘occasione perduta’ . “Perchè si doveva approfittare degli anni in cui una famiglia di qui guadagnava fino a 5 milioni al mese contro il milione della famiglia di Bagnoli. Ma non si è fatto come a Civitanova Marche, dove alla terza generazione i ragazzi vanno all’ università, qui hanno preferito comprarsi l’ automobile. E’ una scelta di vita, che vuole. E questo è stato il risultato dell’ assenza della politica. Tutto è andato avanti in maniera selvaggia e ora dobbiamo riparare”. Non è facile. Nicola Martino, segretario della Cisl campana e studioso attento del fenomeno, un’ idea ce l’ ha e parla di Grumo come di un posto da risanare, sapendo che lo sviluppo selvaggio può essere stato un passaggio obbligato per la sopravvivenza. Come bonificare? Ecco la sua ricetta: “Ripartire con la contrattazione di gradualità o emersione che consente di abbandonare l’ area del sommerso e di entrare progressivamente nella legalità”. C’ è anche un decreto legge che dovrebbe facilitare questa emersione dalla illegalità. E tutto questo, esattamente due secoli dopo la Repubblica partenopea.